Il dopoguerra e il decennio successivo sono momenti di vera miseria per il Trentino. La sopravvivenza è l’obiettivo primario, i livelli di disoccupazione sono elevatissimi e chi possiede un pezzo di terra e un paio di mucche si considera fortunato.

 

Molti, di fronte a questa situazione, optano per l’emigrazione, sperando in un futuro migliore per sé e per la propria famiglia.

Tra il 1951 e il 1975 sono circa 80.000 le persone che abbandonano il Trentino, dirette verso l’Europa e i Paesi d’Oltreoceano, che promettono lavoro e una vita dignitosa. Nonostante non si tratti di una migrazione di genere, gli uomini in partenza superano il numero delle donne. La professione più comune è l’operaio generico che riguarda circa l’80% degli emigrati, seguono le casalinghe con il 6%, e in misura minore, contadini, falegnami e muratori.

Solo nel 1975 l’emigrazione trentina può dichiararsi conclusa, quando per la prima volta i rientri superano le partenze.

 

 

 

«All’inizio degli anni Sessanta i primi studi sul Piano Urbanistico Provinciale collocavano l’emigrazione e la disoccupazione sulle 7.000 unità.» [Giorgio Postal, nato a Trento nel 1939]

 

 

 

 

«Mi avevi lasà en Italia la morosa e la me entenzion era de sposarme e che la vegna via, e g’avevo paura che no la vegnissa! […] G’ho scrit: “Varda che te fago vegnir, te pago la nave, seconda classe, vegnit?”, e me arriva na lettera e gh’era su: “Per te vengo anche sulla luna”. Tei, la m’ha empienù el cor”. Il parroco, però, non ha acconsentito; quindi, la se sposada ela, entant che mi ero lì che sbianchezava, ela l’ha fat le nozze con me fradel.» [Guglielmo Filippi]

 

 

 

Verso l’Europa

 

I paesi industrializzati dell’Europa, in primis Svizzera, Germania e Francia, sono le mete più appetibili, perché più vicine. Tra il 1951 e il 1975 più di 62.000 trentini partono verso queste destinazioni con un’unica speranza: trovare un lavoro.

 

in Svizzera

Più del 60% degli emigrati trentini che scelgono l’Europa si recano nella vicina Svizzera, nonostante molti episodi di razzismo contro gli italiani e la difficoltà di ottenere la cittadinanza e stabilirsi regolarmente. La Svizzera è terra di emigrazione anche per le donne, soprattutto giovani ragazze che cercano lavoro come operaie o come domestiche. Mentre gli uomini trovano principalmente lavori pesanti e spesso malsani, nell’agricoltura, nelle miniere o nelle fabbriche. Inoltre molti datori di lavoro approfittano del bisogno di lavoro dei migranti proponendo loro condizioni di lavoro e di vita durissime.

 

Tuttavia la paga è buona soprattutto se rapportata allo standard di vita trentino lo spirito dei migranti è quello di faticare per consentire la sopravvivenza di chi è rimasto a casa, di risparmiare per acquistare un pezzo di terra o qualcosa che consenta un tenore di vita migliore. Tolto il minimo per la sopravvivenza, inviano quanto guadagnato a casa, in Trentino.

 

Alla fine degli anni Sessanta il 16% della popolazione svizzera è costituito da immigrati e si ritiene opportuno ridurre la quota di stranieri al 10%. Nel 1970 viene indetto un referendum che chiede alla popolazione svizzera di esprimersi a favore o contro l’espulsione dal territorio nazionale degli stranieri “eccedenti”. Gli italiani temono di essere destinatari di questi provvedimenti dato che sono, in generale, malvisti. L’esito della consultazione referendaria blocca la proposta e di conseguenza le espulsioni.

 

 

 

«Negli anni Quaranta-Cinquanta si partiva per la Svizzera; erano soprattutto lavori stagionali e pesanti. I più lavoravano in agricoltura, anche per quindici-sedici ore al giorno. In Svizzera gli stipendi erano doppi, a volte addirittura tripli, rispetto a quelli italiani.» [Silvano Rauzi, nato a Malè nel 1938]

 

 

 

 

«Io sono di Pergine e volevo sposarmi; qui soldi non ce n’erano, i miei non erano signori. La mia amica è andata in Svizzera e mi ha chiamata; avevo detto che sapevo la lingua, tedesco e francese, invece non sapevo niente! La piqûre sapevo che era la puntura, poi avevo una specie di libriccino… Comunque un’esperienza… Sono andata via che ero ingenua, sono tornata qua che ne sapevo una più del diavolo! Sono rimasta quasi tre anni, poi a ventuno mi sono sposata.

 

Dunque, avevo diciotto anni ed ero in Svizzera, alla Maison de Saint Anne, al manicomio, sotto Basilea. Facevo i turni anche di notte e di giorno dormivo. Io facevo l’aiuto infermiera con le matte, mi hanno anche presa per il collo una notte. Bisognava fare anche le pulizie, non era mica come adesso: c’erano i corridoi, ci davano lo spazzolone e si doveva grattare, eren su a duemila metri e c’era solo l’hotel dell’Orso, e tutte le casette degli infermieri. Questo manicomio era un ex convento, tutto vecchio. E non si poteva uscire la sera: ero sopra ai malati, avevo le stanze su (al piano di sopra n.d.r) e il permesso lo prendevo solo una volta al mese. Dico una cosa: eravamo come schiavi.

 

C’erano le baracche degli italiani, erano lì che facevano un pezzo di ospedale. Erano nelle baracche e quando pioveva erano con l’ombrello.

 

Nel ’57, in Svizzera, nei bar, nei negozi e nei cinema c’era scritto: “Vietata l’entrata agli italiani”, non ci prendevano nemmeno i parrucchieri. Allora siamo andati a reclamare, più che altro c’erano bergamaschi, erano tantissimi. E siamo andati a reclamare perché non si poteva entrare, allora il direttore ci ha fatto una specie di lasciapassare e si andava alla Migros, che sono i grandi magazzini.

 

L’emigrazione è un’esperienza che cambia non solo l’approccio personale alla vita ma anche le relazioni con la famiglia e con la comunità natia, soprattutto per alcune giovani donne che si emancipano e riconoscono a se stesse autonomia e capacità di autodeterminazione.» [Erminia Pozzato, nata a Pergine nel 1936]

 

l'emigrazione

Cartello di un Cafè svizzero “Interdetto ai cani e agli italiani” – tratto da giornaleadula.wordpress.com

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credit material: progetto “Mi racconti la tua storia”.

in Francia

 

La Francia era stata meta degli emigranti trentini nel periodo tra le due guerre (40% dell’emigrazione trentina tra ’22 e ’33), ma negli anni successivi il flusso migratorio cala sensibilmente: negli anni Cinquanta e Sessanta solo poche decine all’anno partono verso le terre francesi, sia perché il governo locale privilegia la manodopera del posto, sia per il deprezzamento del franco.

 

Luigi Povinelli, emigrato in Francia e Inghilterra ©Associazione Trentini Nel Mondo O.N.L.U.S.

 

in Germania

In Germania per la forte industrializzazione è molto richiesta la manovalanza italiana, soprattutto quella maschile, come dimostra l’accordo italo-tedesco stipulato nel 1955 per il reclutamento di forza-lavoro. I lavoratori sono reclutati in blocco e costretti a lavori pesanti. I trentini che emigrano in Germania oscillano tra gli 8.000 e i 10.000. Nonostante alcuni episodi di xenofobia, riescono a stabilizzarsi e ad ottenere la cittadinanza tedesca.

 

 

 

 

in Belgio

Un numero minore di persone parte per il Belgio, per lavorare soprattutto nelle miniere: i trentini registrati sono circa 700 e le partenze si intensificano nel secondo dopoguerra. Si parte sperando di trovare una situazione migliore, ma si scopre che anche quel Paese è distrutto dalla guerra.

Generalmente le mogli e i figli raggiungono i mariti in un secondo momento, e una volta ricongiunti anche le donne cercano dei lavori per arrotondare, tra cui cucire, ospitare persone sole o altro. Molti italiani partono soli e vengono “accuditi” da compaesani e parenti; questo metodo è detto “bordo” e si pensa abbia “salvato” migliaia di connazionali dalla strada, dalle baracche, e dalla mercé dei padroni, oltre che dalla solitudine e dallo sradicamento dalla propria terra. In alcuni casi, quando un operaio si ammala, in genere di silicosi, la moglie lo sostituisce in miniera data la mancanza di coperture sanitarie.

Le ostilità verso gli italiani sono spesso presenti; l’insulto più diffuso è “sporchi italiani”, perché la mancanza di mezzi viene assimilata alla sporcizia o alla mancanza di igiene. Dagli anni Sessanta l’ostilità lascia posto ad un’amichevole tolleranza.

 

«Qua no gh’era lavoro e allora no sen ciapava per vivere, se era obligadi a nar all’estero. Quando sono arrivato via in Belgio, ho lavorato subito in miniera sottoterra e non sapevo niente su com’era, non hanno mica fatto spiegazioni su come andava la miniera.» [Lino Folgheraiter]

 

 

«Elo l’è partì en marz e mi el novembre de l’an dopo, sempre a far carte; finché a elo no i g’ha dat en toc de baracca, no se podeva nar no, prima de tut ghe voleva en posto per meterne, se nò no la podeva nar la molie. Eren su en de en treno en tante che le neva, da tuti i paesi. Dopo i n’ha dat sto toc de baracca, ma no gh’era nient, né en let né na carega, nient! E sta baracca l’era en toc de cosina e do camerette, a nar al bagno bisogneva nar su en te na riviera, gh’era en bagno ogni baracca, se g’aveva en secio… L’era na roba…» [Maria Ausilia Paolazzi]

 

 

Verso Oltreoceano

Anche i Paesi d’Oltreoceano, in particolare Canada, Stati Uniti e Australia, sono mete d’emigrazione e tra il 1951 e il 1975 vi si recano oltre 16.000 trentini. L’Europa rimane la destinazione prediletta, e solo tra il 1970 e il 1975 le partenze verso i Paesi d’oltreoceano (settemila emigranti in quest’ultimo periodo) superano quelle per l’Europa.

 

In Argentina

Sin dalla fine dell’Ottocento l’Argentina è una delle mete preferite dai trentini. Negli anni Cinquanta partono per l’Argentina con la sicurezza di poter contare su un sostegno in loco da parte degli emigrati già ben inseriti nel nuovo Paese: il lavoro è assicurato e non c’è nessuna discriminazione tra nativi e stranieri. Si trova lavoro principalmente nel settore industriale e nel terziario (operai, elettricisti, muratori, idraulici, portieri, camionisti, taxisti e contabili), anche perché, in generale, i trentini dispongono di una specializzazione professionale. Le partenze verso l’Argentina, molto numerose tra 1947 e 1955, si riducono quando si comincia a trovare lavoro nelle fabbriche del Nord Italia, anche grazie ai migliorati livelli di scolarizzazione.

 

«Dopo è arrivà el temp de nar en America (a Buenos Aires), ciamà da n’amico. Il viaggio no l’è sta bel de zerto, perché na volta l’era la nave che la vegniva e la portava chi vache e, en via, cristiani; e gh’era dent la spuza ancora de le boaze en de sta nave. Ma ad ogni modo, dai, sen nadi.» [Guglielmo Filippi]

 

In Australia

Per l’Australia si parte per lo più con un’emigrazione “a catena”: la partenza è sostenuta e incentivata da parenti già stabilitisi nel continente. In altri casi invece le partenze sono frutto di annunci sul giornale o del comune di residenza. Le difficoltà principali riguardano la lingua e la diversità dei costumi. Come per gli altri Paesi, una volta trovata un’occupazione fissa gli emigranti, per lo più uomini, vengono raggiunti da mogli e figli.

 

«Per l’Australia partivano sapendo di fare quaranta giorni di nave e si trovavano in situazioni di grande difficoltà. A volte si ritrovavano anche da soli perché partivano in gruppo, ma si dividevano per il lavoro una volta arrivati a destinazione.» [Silvano Rauzi, nato a Malè nel 1938]

 

In Canada

Il Canada è considerato una destinazione interessante, soprattutto negli anni Sessanta in particolare dagli abitanti delle Valli Giudicarie, della Val di Non e della Val di Sole. I migranti godono di trattamenti accoglienti grazie alle leggi ed ai servizi sociali offerti dal sistema canadese. Gli uomini lavorano prevalentemente come operai nel settore ferroviario, industriale e commerciale, oppure nell’artigianato e nei servizi; altri vengono assunti come boscaioli.

Le donne partite per seguire i mariti, si adattano ad integrare il reddito familiare facendo le domestiche o ospitando “a pensione”.

L’intenzione di emigrare per “fare i soldi e poi tornare” si stempera nel tempo e si affievolisce con l’integrazione e con la crescita della famiglia. La migrazione degli anni Sessanta verso il Canada è sostenuta dal desiderio di poter godere dei benefici di uno Stato sociale evoluto, dalle migliori condizioni di vita e dalla possibilità di radicamento.

 

 

 

Walter e Mary raccontano l’emigrazione del padre in Canada nel 1955 e la loro vita da fra Canada e Italia.  Le case delle storie – ©Portobeseno

 

 

 

 

 

Progetto Memoria Spormaggiore – Credit materiale: Fototeca Documentario dell’Altopiano della Paganella

 

 

In Cile

La Regione e il Presidente del Consiglio Alcide Degasperi stipulano, con il Presidente cileno Videla, una “colonizzazione” trentina del Cile, che prevede l’insediamento di un determinato numero di trentini nelle zone di La Serena e Peñuelas. Nel giugno 1951 partono le prime venti famiglie. Consapevoli di trasferirsi in un Paese in cui non c’è niente, sono allettate dalle promesse della Regione: una casa e dieci ettari di terra.

 

«I terreni sono in buone condizioni esclusi i cinque vicino al mare (che non si sarebbero dovuti considerare), il clima è ottimo, le case sono confortevoli, ma mancano i locali rurali accessori (magazzini, tettoia, stalla, attrezzi) e l’acqua non è molto buona. Inizialmente non erano state fornite le terre arate e in parte seminate (come promesso), né nozioni tecniche di coltura di determinate piante […]. Il Presidente cileno ammira i coloni trentini che sono gran lavoratori, seri, gente onesta e moralmente sana; i vari rappresentati delle autorità si ritengono molto soddisfatti e sperano in un nuovo arrivo di coloni trentini». [Il perito agrario Andreaus, nel marzo 1952]

 

Dopo il viaggio in nave durato un mese, l’accoglienza è positiva, ma la promessa di una casa e di terreni da coltivare si rivela un miraggio: i migranti scoprono che non tutte le case sono pronte e alcuni terreni assegnati non sono coltivabili. Le attrezzature scarseggiano, l’acqua pure, e la differenza di trattamento crea tensioni tra i migranti, ma soprattutto una grande delusione per una politica che promette e non mantiene.

Altre famiglie sono inviate in Cile nel 1952 e 1953, in zone ancora meno attrezzate di quelle destinate ai precedenti coloni: S. Ramon, S. Ines, Mirador e Rinconada. I primi tempi sono molto duri, non tutti riescono a resistere alla miseria e alla fatica ed emigrano nuovamente; altre famiglie sopravvivono con molti sacrifici.

 

«Mi ricordo anche la partenza delle famiglie per il Cile, che avveniva con grande entusiasmo, ma poi, per molti di loro, non ci fu un’adeguata assistenza e si trovarono in grandi difficoltà.» [Silvano Rauzi, nato a Malè nel 1938]

 

 

«Il Presidente si è intrattenuto in mezzo ai coloni italiani stringendo la mano a parecchi ed abbracciando qualcuno. La cerimonia è uscita veramente solenne e commovente. Solo alcune case erano complete, infatti i funzionari hanno fatto presente le difficoltà a costruire le case mancanti per insufficiente manodopera […]. Così si sono offerti sedici muratori e sei carpentieri che si sono immediatamente messi al lavoro» [Giuseppe Venturioli-Orlandi, emigrante in Cile]

 

 

«L’accoglienza è stata abbastanza buona, sia dei cileni che delle autorità. Dopo sono venute un po’ di grane, perché, a dire la verità, la casa non c’era e sono andato ad abitare, per quattro-cinque mesi in un’altra famiglia. […] Con la moglie siamo andati a vedere la parcella: senza casa, sabbia, tutto dune e paludi. […] L’acqua potabile non c’era, era come il caffè, la luce non c’era e somenar no se podeva

 

Avevo comprato un cavallo, coi soldi dell’Icle , e ho cominciato a spianare la parcella (l’unico ettaro piano su undici-dodici che avevo), poi ho potuto seminare. Ho comprato due vacche e una manza, coi soldi dell’Icle, per vivere vendevo latte la mattina, lo portavo a Coquimbo in bicicletta.» [Vito Eccher]

 

 

 

 

 

«Noi ci siamo sentiti truffati, un inganno senza nome, perché il Trentino in quel momento doveva affrontare la disoccupazione e la soluzione dei politici era la migrazione: se emigrava una quantità importante di persone, quelli che rimanevano potevano avere il lavoro e sopravvivere. Ci siamo sentiti uno strumento di questo gioco politico! Non si mantennero le promesse fatte, nemmeno una. Le terre non erano coltivabili, erano le peggiori della zona, le promesse di attrezzature non furono adempiute e quelle di aiuto finanziario nemmeno.

 

Le terre da bonificare erano terre difficili, aride. I primi anni furono difficilissimi per tutte le famiglie emigrate. Molte di loro rientrarono in Italia un paio di anni dopo, o se ne andarono lungo il Cile cercando alternative per il miglioramento delle loro condizioni.» [Renato Albertini]

 

l'emigrazione

Aratura dei campi in Cile. – Tratto da “Un solco lungo 50 anni. L’Associazione Trentini nel Mondo dal 1957 al 2007”

 

«Questa colonizzazione è costata, sino ad oggi, un milione e duecentomila dollari di pubblico denaro, per sistemare male e provvisoriamente trenta famiglie coloniche, affamandone settanta e gettandole, sprovviste di tutto, sul mercato del lavoro cileno». [Dall’ordine del giorno dalla Commissione direttiva della Comunità delle famiglie coloniche trentine di La Serena, 12 ottobre 1955]

 

 

Gli eventi politici cileni degli inizi degli anni Settanta aumentano nei coloni la volontà e la necessità di rientrare in patria. Infatti, Allende, salito al governo nel 1970, avvia delle riforme per sostenere lo sviluppo delle classi sociali più basse, provvedimenti che non favoriscono i coloni trentini, considerati possidenti terrieri.

 

«Esponiamo il momento difficile in cui ci troviamo e che ci ha costretti a prendere una precisa determinazione» con esplicite richieste: «assicurare il rimpatrio in forma ordinata e preparata, facilità di alloggio all’arrivo, facilità di collocamento, inserimento allo studio dei figli.» [trentini cileni scrivono al Presidente della Regione Giorgio Grigolli]

 

«A inizio anni Settanta, negli ultimi anni del governo Allende, i nostri poveri emigrati erano in una situazione terribile, di miseria. Di conseguenza chiedevano di tornare in patria e io ricevetti l’incarico dalla Provincia di accoglierli. Questo consisteva in vari compiti: andare nei paesi d’origine delle famiglie emigrate per vedere dove avrebbero potuto alloggiare, cercare loro un lavoro e seguirli fino al completo reinserimento; inoltre andavo a Genova a riceverli al loro sbarco, dopo un mese di nave. Mi ricordo bene gli operai che lavoravano alla banchina, ormai mi conoscevano e mi offrivano il loro aiuto, commentando che solo noi trentini facciamo queste cose per la nostra gente.» [Lucia Fontana, nata a Rovereto nel 1923]

 

 

In Cile, l’estrema destra alimenta un clima terroristico: ciononostante Allende conserva un ampio consenso popolare, aggiudicandosi le elezioni politiche del marzo 1973; i trentini continuano, comunque, a voler tornare in patria. Padre Antonio Mascarello scrive al Presidente della Provincia Bruno Kessler: «Ora la situazione è cambiata […] è ritornata in tutti la fiducia e la speranza di un avvenire migliore. Si dovrà soffrire ancora molto e a lungo tempo prima di ricostruire tutto quello che è stato distrutto, ma si ha fiducia… […] La gente respira, si sveglia da un grande incubo, si riprende la vita normale. […] Nessuno più pensa di ritornare.»

 

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